La sarcoidosi è una malattia granulomatosa cronica sistemica ad eziologia immunologica ignota. Coinvolge nella maggior parte dei casi i polmoni ed i linfonodi, soprattutto quelli mediastinici; tuttavia, può interessare il fegato, la milza, il tratto gastroenterico, la cute, gli occhi, le ghiandole salivari ed il cuore (1-3). La localizzazione muscolare, descritta per la prima volta da Licharew nel 1908 (4), è abbastanza frequente (50-80 %) e, di solito, asintomatica. Appare, infatti, raro un interessamento di tale sede con manifestazioni cliniche (0,14-2,3 %) (1, 5, 6). CASO CLINICOUna paziente di 59 anni si presentava presso il nostro Istituto per la comparsa da circa 3 mesi di una tumefazione dolente e mobile alla palpazione a livello del muscolo gemello mediale della gamba sinistra. La donna non mostrava particolari alterazioni degli esami ematochimici e clinicamente appariva in buone condizioni di salute. La paziente era stata sottoposta presso altra sede ad una Risonanza Magnetica (RM). Con tale metodica di imaging era stata descritta un'alterazione morfologica e di segnale in corrispondenza del ventre muscolare del muscolo gemello mediale della gamba di sinistra, per la presenza di una formazione ovalare al suo terzo medio, di circa 5 cm. Questa formazione appariva disomogeneamente iperintensa in T1 e aumentava il suo segnale in T2, come per alta cellularità; essa non infiltrava l'epimisio ed improntava il tessuto sottocutaneo senza coinvolgerlo direttamente (Fig. 1). Presso il nostro Istituto la donna eseguiva una Tomografia Computerizzata (TC) che mostrava in condizioni di base una lesione scarsamente riconoscibile essendo isodensa con il tessuto muscolare che la conteneva. Dopo somministrazione di mezzo di contrasto, essa presentava in fase precoce un'enhancement disomogeneo e periferico che permetteva una sua migliore identificazione rispetto al tessuto muscolare sano circostante, senza evidenza di coinvolgimento dell'epimisio. In una
IntroduzioneLa rotula è funzionalmente inserita nell'apparato tendineo estensore e svolge la funzione di distanziatore, aumentando in modo significativo la forza in estensione (30-50%); essa è pertanto soggetta a importanti pressioni durante i movimenti di flesso-estensione (fino a 3,5 volte il peso corporeo). Questa premessa biomeccanica spiega come mai le cartilagini articolari dell'articolazione femoro-rotulea siano particolarmente spesse (5-6 mm a livello delle faccette articolari rotulee, 2-4 mm in corrispondenza della troclea femorale) per poter svolgere al meglio il ruolo di ammortizzatori. Inoltre la rotula deve scorrere in modo corretto nella troclea femorale al fine di minimizzare gli attriti che, provocando "impingement" sulle superfici articolari, portano a una progressiva degradazione della cartilagine con conseguente danno artrosico. Lo scorrimento è reso possibile da una serie di complessi fattori di stabilizzazione che contribuiscono a mantenere la corretta centratura della rotula rispetto alla troclea durante l'escursione dinamica dei movimenti. In particolare, va ricordato che, a causa del valgismo fisiologico nei primi 30°d i escursione del movimento di flessione, vi è una fisiologica, anche se modesta, tendenza alla lateralizzazione della rotula; nei gradi più spinti di flessione (fra 30°e 60°) compare un vettore diretto verso la troclea femorale (centripeto) che, crescendo progressivamente, stabilizza la rotula all'interno della troclea, opponendosi alla traslazione esterna. Dopo i 60°questo vettore si mantiene costante e ciò permette un corretto scorrimento, evitando condizioni di iperpressione che a loro volta possano degradare la cartilagine rotulea. Ne consegue che la massima instabilità rotulea, anche in condizioni fisiologiche, si realizza nei primi 30°della flessione, quando il vettore centripeto ha scarso valore funzionale [1,2]. Numerosi sono i fattori che presiedono al meccanismo di stabilità della rotula: 1) fattori conformazionali anatomici: esistono condizioni ottimali che, se rispettate, riducono la tendenza allo scarto esterno della rotula rispetto alla troclea durante i movimenti di flesso-estensione. L'asse meccanico dell'arto inferiore è, in condizioni normali, compreso fra 0 e 7°di valgismo. Ogni incremento di tale valore accentua la tendenza alla lateralizzazione, mentre invece il varismo facilita lo scarto medializzante della rotula. Effetti analoghi hanno condizioni che accentuano il disallineamento dell'apparato tendineo estensore, quali la traslazione esterna dell'apofisi tibiale anteriore o la rotazione esterna della tibia, come può accadere nei vizi torsionali. Anche la morfologia delle superfici articolari agisce come fattore stabilizzante; in particolare, la profondità del solco rotuleo (in condizioni normali 5-7 mm) e la maggior salienza della faccetta trocleare esterna permettono di opporsi alla lateralizzazione. Al contrario, condizioni anatomiche particolari quali la "rotula alta" o il "genu recurvato" accentuano l'instabilità; 2) stabilizzatori estrinseci: un ...
7I dischi intervertebrali sono strutture anatomicamente complesse, costituite da una porzione centrale ad alta idratazione, il nucleo polposo, e da una parte periferica di contenimento, l'annulus fibroso. Essi costituiscono nel loro insieme circa un quarto dell'altezza dell'intera colonna. I dischi sono integrati, da un punto di vista anatomico e funzionale, con i piatti vertebrali e svolgono importanti funzioni di "shock absorber" e di stabilità dell'unità elementare del rachide, costituendo la 1°e 2°colonna del modello funzionale di Dennis. Essi sono sottoposti, con l'invecchiamento, a un processo involutivo caratterizzato da progressiva disidratazione e perdita di proteoglicani, con un relativo incremento della concentrazione di collagene. La velocità di tale processo è variabile in rapporto all'uso (è più marcata nei casi di sovraccarico funzionale) ed è in rapporto ai gradi di libertà di movimento propri di ciascun settore del rachide (massimi nel rachide cervicale, minimi nel tratto dorsale). In tutti i casi l'involuzione determina una degradazione delle capacità funzionali del disco; ciò induce una patologica ipermobilità che, con un meccanismo di "feed-back" negativo, accelera la degenerazione, che si manifesta con una progressiva perdita di volume del disco, con manifestazioni osteocondrosiche sui piatti vertebrali, formazione di osteofiti, ipertrofia dei massicci articolari e, da ultimo, stenosi dello speco vertebrale [1]. Questo ciclo trifasico (disfunzione discale-instabilità segmentaria-rigidità segmentaria) ha riflessi clinici rilevanti sul piano epidemiologico. Negli Stati Uniti si stima che il dolore al rachide sia la seconda causa di visite mediche; l'80% della popolazione adulta ha avuto nel corso della vita almeno un episodio di dolore acuto al rachide, mentre il 5% ha problemi di dolore cronico. Manifestazioni caratteristiche della patologia discale degenerativa, spesso in fase precoce, sono la progressiva deformazione radiale del disco e la rottura dell'annulus, che determinano i quadri di protrusione e di ernia discale [2]. La diagnosi strumentale di sofferenza degenerativa del disco, e in particolare di protrusione o ernia discale, "topic" del presente articolo, può oggi essere effettuata in modo precoce, efficace e non invasivo grazie all'impiego della RM e della TC, tecniche che hanno fatto cadere praticamente in disuso la mielografia. D'altro lato non va neanche incoraggiato uno "screening" radiologico eccessivo nei pazienti affetti da "back pain", tenendo conto sia della prevalenza di malattia (si avrebbero costi sanitari elevatissimi sottoponendo l'intera popolazione sintomatica al test radiologico, senza il filtro preliminare di appropriati criteri di selezione), sia del fatto che le informazioni ottenibili non sempre modificano l'atteggiamento terapeutico [3]. Infatti le caratteristiche dell'ernia "per sé" non producono cambiamenti nell'atteggiamento terapeutico iniziale, che attualmente è comunque di tipo medico; la scelta chirurgica (nella quale, al contrario, è fondamentale la con...
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